Con la ripresa delle attività di controllo dopo la pausa estiva, riemerge un tema ormai ricorrente: l’abitudine dell’Amministrazione finanziaria di richiedere ai contribuenti documenti e informazioni già disponibili nelle proprie banche dati.
Un recente caso ha riguardato un contribuente in regime forfettario, invitato a giustificare la differenza tra le consistenze bancarie e i ricavi dichiarati. L’Ufficio, pur avendo accesso agli atti notarili delle compravendite immobiliari che giustificavano tali somme, ha chiesto al contribuente di produrre la relativa documentazione. È stato quindi il contribuente a dover fornire atti già registrati e acquisibili d’ufficio.
L’art. 6, comma 4, dello Statuto del Contribuente (L. 212/2000) stabilisce chiaramente che non possono essere richiesti al contribuente documenti e informazioni già in possesso dell’Amministrazione finanziaria o di altre amministrazioni pubbliche. Tali dati devono essere acquisiti d’ufficio, senza gravare il cittadino di un onere inutile.
La Corte di Cassazione ha più volte ribadito il principio (tra le altre: Cass. n. 12304/2017; n. 18455/2016; n. 1666/2025), evidenziando che nei rapporti tra fisco e contribuente devono prevalere collaborazione e buona fede.
Il principio non si applica nei casi in cui i dati presenti nelle banche dati fiscali non siano direttamente consultabili o liberamente utilizzabili. È il caso: delle fatture elettroniche, i cui elementi informativi non sono interamente accessibili all’Amministrazione; dei dati bancari, per i quali la normativa (art. 1, c. 682, L. 160/2019) consente l’uso dell’“anonimometro” solo in forma pseudonimizzata per l’analisi del rischio.
La vicenda ripropone dunque un nodo ancora irrisolto: evitare richieste ridondanti e garantire un utilizzo più efficace delle informazioni già in possesso dell’Amministrazione, nel rispetto dei principi di semplificazione e collaborazione con il contribuente.