La giurisprudenza di merito inizia a occuparsi dei finanziamenti che, nel 2020 e nel 2021, sono stati erogati alle imprese in ragione di garanzie pubbliche. Lo strumento di gran lunga più utilizzato (coerentemente con la composizione del tessuto economico del Paese) è stato il fondo di garanzia per le PMI, le cui capacità di operare sono state temporaneamente estese dalla normativa emergenziale COVID-19 (DL 23/2020).
La garanzia pubblica rappresentava un elemento spesso essenziale per consentire l’erogazione di molti di quei finanziamenti, giacché capace di ridurre sensibilmente per le banche il capitale di rischio assorbito, ma sembra che in alcuni casi l’affidamento abbia avuto luogo senza una istruttoria.
Il decreto del Tribunale Asti 10 gennaio 2024 n. 4 affronta il tema della rilevanza e significatività della misurazione del merito di credito delle imprese che le banche erano (e sono) comunque tenute a condurre, anche in tale particolare fattispecie di finanziamenti. Il giudizio commentato è stato originato dal fallimento della mutuataria e dalla opposizione della banca mutuante al rigetto della istanza di ammissione al passivo (la procedura concorsuale si aprì in vigenza del RD 267/42).
Va osservato che l’istanza di ammissione al passivo del credito rimasto impagato al momento del fallimento dell’impresa affidata era stata presentata dalla banca mutuante (in chirografo) in ragione del fatto che il Fondo PMI non era ancora stato escusso. Alcuni ulteriori aspetti, inoltre, inducono a ritenere che la fattispecie esaminata possa rappresentare una situazione effettivamente limite.
In primo luogo, il finanziamento “COVID” è stato utilizzato dalla banca per estinguere un preesistente scoperto di conto corrente a revoca, di importo sostanzialmente coincidente.
In secondo luogo, i beni e diritti della società affidata erano stati oggetto di azioni esecutive (ipoteca giudiziale e pignoramento di crediti presso terzi) nei mesi immediatamente precedenti all’operazione. L’istanza di fallimento della società mutuataria, infine, era stata presentata dopo soli tre mesi dalla concessione del finanziamento con garanzia pubblica.
Alcuni ulteriori elementi di fatto, affermano i giudici piemontesi, avrebbero dovuto indurre la banca a svolgere una reale e approfondita istruttoria. Tali erano i preoccupanti dati dell’ultimo bilancio della mutuataria, così come le evidenze della centrale rischi, da cui emergevano utilizzi dei fidi anche eccedenti i rispettivi limiti nonché la sussistenza di numerosi insoluti sulle linee di credito autoliquidanti. L’istruttoria non è stata, però, in alcun modo esperita, avendo la banca assunto di sé stessa l’onere di compilare la documentazione necessaria a ottenere la garanzia pubblica, sulla base di documentazione incompleta.
Tale comportamento, proseguono i giudici, è così distante dalla diligenza necessaria che se ne può desumere la piena consapevolezza da parte della banca sia della insolvibilità dell’impresa cliente che del rischio di credito effettivamente assunto, circostanza questa idonea, peraltro, a comprovare la sussistenza del dolo con riferimento ai profili penali di cui si dirà sotto.
Queste premesse hanno condotto il tribunale a ritenere che il reale scopo perseguito dalla banca fosse quello di accedere alla garanzia del Fondo PMI. Una simile causa del negozio è in contrasto con il quadro normativo (primario e secondario) che informa l’attività delle banche, anche con riferimento all’accesso delle garanzie pubbliche, posto che il DM 248/99 prevede espressamente che le imprese affidate per la quali essa è richiesta siano ragionevolmente in grado di restituire il finanziamento erogato.
Ne deriva, nel caso di specie, la nullità del contratto ex art. 1345 c.c., per illiceità della causa.
Il contratto in parola, peraltro, è nullo anche ai sensi dell’art. 1418 c.c., in ragione del fatto che l’operazione si è rivelata funzionale all’indebito conseguimento da parte dell’intermediario finanziario di un contributo pubblico, rappresentato dalla garanzia, grazie alla omissione di informazioni circa il reale stato di decozione in cui versava l’impresa affidata. Si tratta quindi di un’operazione che integra il reato di malversazione (art. 316-bis c.p.), rectius di tentata malversazione, posto che affinché esso possa dirsi consumato non assume rilievo la circostanza che la garanzia pubblica non sia stata ancora escussa.
L’imperatività delle norme violate, da cui deriva la nullità del contratto ex art. 1418 comma 1 c.c. deve intendersi pacifica in ragione dell’interpretazione (Cass. n. 16706/2020), orientata dall’art. 41 della Costituzione, secondo la quale gli interessi violati sono rilevanti e collettivi.
Da un terzo punto di vista, l’operazione descritta è illegittima in quanto, ex art. 217 comma 1 n. 4 del RD 267/42, è idonea a procrastinare la dichiarazione di fallimento dell’impresa affidata e, conseguentemente, ad aggravarne il dissesto in ragione delle ulteriori perdite generate.