24 maggio 2024 – La cessione totalitaria di quote non è una cessione di azienda

Si aggiunge un’ulteriore sentenza alle tante che, nell’ultimo anno (cfr. Cass. n. 10243/2024; Cass. n. 7613/2024; Cass. n. 7470/2024; Cass. n. 7495/2024; Cass. n. 34917/2023), hanno sancito la non equivalenza, ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, della cessione totalitaria di partecipazioni rispetto alla cessione d’azienda.
La sentenza n. 14031, depositata il 21 maggio 2024, ribadisce, infatti, che non è più percorribile, dopo la riforma dell’art. 20 del DPR 131/86, l’indirizzo interpretativo secondo il quale l’Amministrazione finanziaria potrebbe disconoscere, ai fini tributari, gli effetti civilistici di atti o negozi posti in essere dalle parti, ove essi non siano conformi alla “causa reale” dell’operazione economica realizzata, in applicazione del principio giurisprudenziale della “prevalenza della sostanza sulle forma”.
La sentenza ha il pregio di porre in evidenza i rapporti tra la disciplina sull’abuso del diritto (art. 10-bis della L. 212/2000) e quella sull’interpretazione degli atti ai fini dell’imposta di registro (art. 20 del DPR 131/86).
Dopo aver individuato le importanti differenze giuridiche tra l’atto di cessione di quote e l’atto di cessione di azienda, la Cassazione rileva che, a seguito della riforma (operata dall’art. 1 comma 87 della L. 205/2017 e resa retroattiva dall’art. 1 comma 1084 della L. 145/2018) l’art. 20 del DPR 131/86 impone di interpretare l’atto portato alla registrazione, ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, guardando solo al suo contenuto intrinseco, non potendo fare riferimento ad atti collegati o elementi extratestuali.
Questa disposizione non può più essere usata in funzione antielusiva, come ha in più occasioni confermato non solo la giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 34955/2023; Cass. n. 34917/2023) ma anche, a più riprese la Corte Costituzionale (Corte Cost. nn. 158/2020 e 39/2021).
Ciò non significa che l’Amministrazione finanziaria “debba accogliere acriticamente la qualificazione prospettata dalle parti”, come dimostra il fatto che l’art. 20 stesso richiede di applicare l’imposta di registro andando oltre al titolo e alla “forma apparente” dell’atto. L’attività riqualificatoria ammessa dal novellato art. 20, però, non può “travalicare lo schema negoziale tipico nel quale l’atto risulta inquadrabile mediante l’artificiosa costruzione di una fattispecie imponibile diversa da quella voluta dai contraenti”.
Ad esempio, non è ammissibile che, come avvenuto nel caso di specie, si applichi il trattamento previsto per una fattispecie (la cessione di azienda) che comporta anche effetti giuridici diversi da quella stipulata dalle parti (cessione di partecipazioni), basandosi sulla “assai opinabile equivalenza economica tra la cessione totalitaria di quote societarie e la cessione di azienda”.
In questa ottica non hanno quindi rilievo le “ragioni economiche e commerciali che hanno determinato la cessione oggetto di causa” rivenute dal giudice del merito nell’interesse dell’alienante a “monetizzare il valore complessivo dei beni aziendali”, posto che “i contraenti hanno scelto di adottare, anche in vista di un risparmio fiscale, un tipo negoziale in luogo di un altro, diverso anche negli effetti giuridici”.
Nel contesto delineato dall’art. 20 del DPR 131/86, il soggetto chiamato ad applicare l’imposta di registro non deve “ricercare un presunto effetto economico dell’atto, tanto più se, come nel caso di specie, tale effetto è proprio quello tipico del negozio prescelto (trasferimento della proprietà di quote contro prezzo), in assenza di clausole che ne abbiano modificato la tipicità codicistica”. Invece, l’art. 20 consente all’interprete di individuare gli elementi del regolamento negoziale adottato dalle parti che ne hanno modificato la sostanza, facendone scaturire effetti giuridici diversi, cui sia riconducibile un’imposizione diversa.
Nel caso di specie, invece, l’Ufficio si è limitato ad affermare che le parti contraenti erano mosse dall’intento di “dissimulare l’avvenuta cessione d’azienda per la quale è dovuta l’imposta proporzionale di registro, in luogo di quella assolta in misura fissa sull’atto di vendita di quote”. Ma tale considerazione si pone del tutto al di fuori dei confini dell’art. 20 del DPR 131/86, posto che non viene sollevata alcuna valutazione su elementi dell’atto, bensì solo presupposto l’esistenza di una fattispecie diversa, soggetta ad imposizione più elevata. Ma questo non significa che non sia possibile contestare in alcun modo l’operato delle parti contrattuali. Infatti – conclude la Suprema Corte – da un lato, il principio della prevalenza della sostanza sulla forma può essere fatto valere dall’Amministrazione nei limiti imposti dall’attività ermeneutica legittimata dall’art. 20 del DPR 131/86, ove emerga da elementi interni all’atto; dall’altro, ove ricorra l’abuso del diritto, l’Ufficio può ricorrere all’art. 10-bis della L. 212/2000 che, richiamato dall’art. 53-bis del DPR 131/86, consente di superare la qualificazione formale dell’atto, provando l’illegittimo risparmio fiscale, nel rispetto delle garanzie procedimentali da esso richieste.